Una Schwerter Bräu, non fa Capodanno.
Nome: Schwerter Bräu,
Costo: 74 centesimi di euro per mezzo litro di birra.
Tra le festività che più odio in assoluto, a farla da padrone è di certo Capodanno. Ok, aborro il Natale. Disprezzo di cuore Carnevale. Sopporto malvolentieri Pasqua. Non capisco del tutto nemmeno Ferragosto. Quindi, a rigor di logica, si potrebbe facilmente dedurre che sono io ad avere un problema e non le festività. Le quali, nella loro algida indifferenza, se ne stanno in un empireo gonfio di rapporti umani approssimativi, cene e pranzi pantagruelici, necessità di addobbi o regali o ritualità senza, in sostanza, dare fastidio a nessuno. Se non, come sottolineato in precedenza, a me e alle persone come me (che, ci posso scommettere, non sono affatto poche), le quali vivono le festività con un malcelato senso di disagio esistenziale.
Le cause di questo personale malessere sono molteplici e affondano le loro radici in vicende umane che declinare sarebbe alquanto superfluo e, ai fini della recensione di una Birra Ignorante, affatto interessante. In sostanza credo ci sia una sorta di commistione tra ricordi d’infanzia, degenero lavorativo (le festività rendono inevitabilmente le persone più odiose e insopportabili), scazzi etilici, litigate varie e chi più ne ha più ne metta. Perché, poche storie, se si mettono assieme (in maniera più o meno coatta) un discreto numero di persone, un quantitativo non indifferente di alcol, del cibo eccedente il reale fabbisogno corporeo e, en passant, la necessità (commercialmente inculcata) di doversi divertire, beh, è quasi scontato che ciò che uscirà da questo mix letale sarà qualcosa di nient’affatto positivo.
Intendiamoci, non è che tutti quanti vivano con malessere le festività. Molte persone adorano scofanarsi di cibo, bere spumanti da quattro soldi o birre calde nel solleone ferragostano, abbracciare parenti, scambiarsi regali ignobili, fingere interesse per le vicende umane di questo o quest’altro cugino di terzo grado. O inventarsi nuovi modi per passare il tempo in compagnia, senza spillare soldi a qualcuno per mezzo della solita partita a briscola col mazzo truccato. Evidentemente, però, io non faccio parte di questa categoria. E lo dico quasi a malincuore perché, se così fosse, vivrei con gioia e gaudio le festività. Senza fare come faccio ora, ovvero aspettare con ansia che il mondo smetta di aver qualcosa da festeggiare e ritorni alla sua più piena produttività. Che, per l’infelicità delle masse sarà anche disagio, ma per me rappresenta il modo migliore per essere concentrato sulla realtà dei fatti, e non su immagini stereotipate che, nel presentarsi come positive, finiscono col far perdere di vista l’evidenza delle cose. E l’evidenza, amici cari, senza girarci troppo attorno è che le festività servono solo a chi produce, illudono chi consuma, fottono chi crepa.
Cosa c’azzecca questo con il fatto che odi Capodanno, Andrej, direte voi? Perché diavolo la prendi sempre larga quando devi parlare di Birre Ignoranti? Perché ci racconti la storia dell’orso, dei massimi sistemi mondiali? Perché ci ammorbi con le tue diavolerie da quattro soldi quando noi, in realtà, vorremmo solo sapere con quale Birra Ignorante passare le prossime giornate! A quale dedicare i migliori anni del nostro fegato senza dover pensare al fatto che sì, le festività fanno anche schifo, ma per lo meno ti danno la possibilità di godere del tempo libero. Così da investire suddetto tempo libero nell’amena goduria delle Birre Ignoranti. E poi, Andrej, da te proprio non me lo aspettavo: la Birra Ignorante calda sotto il solleone ferragostano è uno dei massimi piaceri della vita, e potrai produrre, consumare e poi crepare, ma resta che piaceri come quello ti si infilano nel cuore, e lì restano, per germogliare poi quando meno te lo aspetti. Quando Ferragosto sarà soltanto un vago ricordo e tu berrai la tua Birra Ignorante calda, e ti sembrerà la madeleine di Proust. Allora sentirai il sapore del luppolo da quattro soldi fermentato nel calore della lattina e ti ricorderai, non della prima volta in cui Aureliano Buendia fu condotto dal padre a conoscere il ghiaccio, bensì dell’ultima sbronza ferragostana. E lì, caro Andrej, non ci saranno lacrime capaci di contenere la nostalgia. Perché se la vita è come una scatola di cioccolatini, le festività sono come una lattina di birra calda sotto il solleone: non saprai mai quale sarà il sorso che ti darà il colpo di grazia al fegato.
Era il Capodanno di qualche anno fa. Non troppo in là con gli anni, non troppo a ridosso della contemporaneità. Un capodanno alla Capossela, senza pretese come quasi tutti i capodanni dell’ultimo decennio. Tiravo avanti una relazione finita da svariati mesi, tra scatti d’ira, momenti di lucida follia, sedute (altrui) di Bikram Yoga e libri di Jodorowsky. Come fossi finito a imbucarmi in una situazione del genere, resta tuttora un mistero. O meglio, sono certo di sapere il percorso di ogni singola azione che mi ha portato in quel preciso luogo e in quella precisa realtà. Tuttavia, nel fissare ora quella realtà, come una bottiglia di Birra Ignorante vuota e impolverata, credo che la componente di testardaggine abbia avuto di gran lunga la meglio sul buonsenso. Non credo si trattasse nemmeno di egoismo singolare, piuttosto di egocentrismo plurale. Eravamo come due attori sul palcoscenico della vita: piuttosto che capirci, ci ascoltavamo recitare. Alla fin fine, crollato il disinteresse dell’universo-mondo ai nostri eroici furori, ciò che restava erano i complimenti per l’interpretazione. Il riappacificarsi era l’ammettere che la prestazione era stata significativa, non che le incomprensioni fossero state superate. A lungo andare non poteva reggere, e infatti non ha retto. Arrivammo a quel Capodanno come un fascio di nervi infranti. Sempre pronti sul chi vive per saltare e riproporre l’ennesima sessione di insulti, litigate e sfuriate. L’annaffiare il tutto di alcol non migliorava le cose, e non le avrebbe mai migliorate. Era l’ultimo Capodanno della nostra relazione. Entrambi lo sapevamo. Entrambi ne eravamo consapevoli. In fin dei conti, era così che doveva andare. E, per certi versi, andava bene a tutti e due.
Nonostante avessimo pensato ad altre soluzioni finimmo in una specie di prefabbricato in una zona industriale di una grande città del Nord Est. Alcuni giorni prima aveva nevicato e i cigli delle strade erano ancora ricoperti di una neve grigiastra dura e compatta. Per intenderci, se avessimo deciso di giocare a palle di neve, oltre che necessitare di una picozza per scalfire la neve e di una mola per modellarla, avremmo seriamente corso il rischio di mandare qualcuno all’ospedale tanto era dura e ghiacciata e sporca la neve di cui sopra. In ogni caso eravamo un bel gruppetto. La festa era stata organizzata da alcuni amici della mia compagna, quindi io ero essenzialmente a rimorchio. Invitato in quanto fidanzato ufficiale in fase di sfidanzamento. Il tutto in un Capodanno grigio e nebbioso che aveva come location la periferia di una grande città industriale del cupo Nord Est. Ripensandoci, dubito possiate stupirvi che io odi a tal punto Capodanno.
Il tema della serata, non esplicitato ma suggerito, era “i balli di gruppo”. In sostanza, tra una Birra Ignorante e uno spumante riciclato da qualche pacco-dono aziendale, la gente poteva alternarsi a una consolle dove sfidare i vari malcapitati a un videogioco sul ballo. Non essendo un gran videogiocatore (anzi, per nulla), non ricordo il nome del videogioco in questione, ma mi era stato assicurato che era uno dei più famosi e accurati in circolazione. Ovviamente non avevo alcun motivo o interesse per dubitare di ciò. La serata andò avanti così per diverse ore. Mentre la gente si alternava alla consolle, io passavo il tempo a bere birrette e chiacchierare del più e del meno con le persone che avevo accanto. Aspettando i turni di questo o quest’altro invitato e verificando come quel videogioco portasse davvero le persone ad accanirsi, spingendole a dare sempre il massimo in piroette, movimenti sincronici di braccia e gambe, saltelli improvvisi e scatti in avanti o indietro al limite della coordinazione umana. In sostanza, là dove la gente sembrava divertirsi da morire, io mi annoiavo clamorosamente, uscendo di tanto in tanto dal prefabbricato e trovandomi, Birra Ignorante in mano, di fronte lo spettacolo delle pareti in vetrocemento degli edifici adiacenti. Il tutto sporcato da una nebbiolina fitta, umida e persistente che, ad ogni sorso di birra, mi si impregnava nella barba, dandomi come l’impressione di bere con uno strofinaccio umido tra il naso e il labbro superiore.
La serata finì diverse ore dopo mezzanotte. Ero più annoiato che stanco, e tutto fuorché ubriaco. Non c’era stata una litigata di coppia, ma poco c’era mancato. Come ogni litigata, le colpe andrebbero sempre equamente divise, quindi anche l’assenza di una qualsivoglia discussione andrebbe spartita tra entrambi. E credo che la ragione fosse che c’era ancora ben poco da litigare. Andammo a dormire, ci svegliammo tardi, facemmo gli auguri ai genitori di lei e ci rimettemmo in cammino. Non che volessimo recuperare alcunché a livello sentimentale, solo credo che la serata fosse stata insoddisfacente per entrambi e, in un certo qual modo, anche lei si sentiva responsabile di ciò. Non era il migliore dei mondi possibili, non lo sarebbe mai stato, ma una serata di Capodanno passata a ballare davanti a una consolle era qualcosa che sfiorava la noia pomeridiana post-adolescenziale. Se in altre situazioni eravamo stati vicendevolmente consapevoli della necessità di staccare, in quel momento e in quello soltanto eravamo stati consapevoli della necessità di rimettere in piedi quanto meno il primo giorno dell’anno.
Così prendemmo la via della frontiera. Ci mettemmo in viaggio verso la Slovenia, alla ricerca di un agriturismo dove poter cenare e, nella migliore delle ipotesi, passare la notte. L’auto di quella che era la mia compagna era fuori uso, così ci dovemmo arrangiare con l’auto di suo padre. Lei alla guida, io al navigatore alla ricerca di un luogo che non conoscevamo, in zone di cui a malapena avevamo sentito pronunciare il nome. Il tutto, in una quasi totale assenza di luci, data la zona stupenda e selvaggia. Man mano che, seguendo i consigli del navigatore, ci inerpicavamo sulle colline del Collio friulano, la luce andava calando, la strada andava rimpicciolendo e la neve ai lati della carreggiata aumentando. Dopo diversi chilometri in questa no men’s land, e a pochi chilometri dalla nostra meta, la mia ex compagna fu presa dall’isteria. Di certo non posso biasimarla: guidava un’auto non sua, aveva i nervi a fior di pelle per non conoscere le strade e non si fidava della neve ai lati della carreggiata. Solo, oltre alla comprensibile crisi di rabbia, ebbe la malsana idea di bloccarsi, piantando il freno a mano giusto a metà di una salita nel bel mezzo di un vigneto. Esattamente in corrispondenza di un lastrone di ghiaccio che non lasciava presagire alcunché di buono. Il gesto fu tanto iconico quanto avventato.
Cari amici, immaginate dunque la scena: un’auto bloccata su un lastrone di ghiaccio, nel bel mezzo di una salita a ridosso di un vigneto, in una serata buia in cui la luce più vicina era quella di alcune case poste a decine di chilometri di distanza. Il tutto, ovviamente, in quello che era il primo giorno dell’anno. Continuò la crisi di rabbia e continuarono gli insulti. La colpa sembrava essere tutta mia, perché «l’idea era mia!» (falso), perché «avevo scelto io il luogo!» (falso), perché «con me andava tutto a finire in merda!» (molto probabile). Non cercai nemmeno di farle notare che, tra tutte le idee di merda, la peggiore era stata proprio quella di tirare il freno a mano nel bel mezzo di una salita. Sarebbe stato inutile. In sostanza, dopo un quarto d’ora di insulti e offese alquanto pesanti e sgradevoli, presi in mano la situazione e, salito al posto di guida, innestai la seconda sganciando in contemporanea il freno a mano. L’auto emise un odore mefitico di plastica bruciata mista a ghiaccio fuso (lì per lì sperai fossero le gomme, anche se era ovvio si trattasse della cinghia di distribuzione…), si inerpicò sul ghiaccio e, borbottando e scivolando, si posizionò su un pianoro distante qualche centinaio di metri. La crisi di rabbia si attenuò parzialmente, ma non del tutto. Adesso il problema era come muovere l’auto dallo spiazzo, dato che la strada appariva ghiacciata anche in quel punto e in quello immediatamente successivo, cosa che faceva ben temere sviluppi similari a quelli registrati in precedenza.
Di lì a un’ora, però, vi posso giurare che ebbi uno dei più grandi insegnamenti (o conferme) della mia esistenza. E lo dico senza presunzione o ironia. Dato che la misura era colma, decisi che, pur di uscire da quell’inghippo, sarei stato disposto a bruciare tutti i miei (pochi) averi. Rappresentati nella fattispecie dalla tredicesima appena incassata. Tentammo così, nell’ordine, di farci recuperare A) dal’ACI (di cui eravamo soci), B) da una compagnia parificata all’ACI (di cui però non eravamo soci), C) da un carro-attrezzi privato, D) dai pompieri. Il risultato, in tutti e quattro i casi, fu negativo. Nessuna delle figure da noi contattate si dimostrò minimamente interessata a risolvere il nostro problema, additando l’impossibilità di operare in un contesto così “impervio”. Ciò, amici cari, mi insegnò (se ancora ve ne fosse bisogno) che non si può contare su chi A) paghi formalmente per aiutarti tramite assicurazione, B) pagheresti per aiutarti, C) pagheresti PROFUMATAMENTE per aiutarti, D) paghi indirettamente (tramite le tasse) per aiutarti. Sconsolati, raffreddati e con i cellulari scarichi, lasciammo lì l’auto (cercando di accostarla quanto più possibile al ciglio della piccola strada di collina) e ci dirigemmo a piedi all’agriturismo che tante disavventure ci aveva causato e che distava circa un chilometro dal luogo del misfatto.
Inutile dire che le luci spente ci comunicavano l’ennesima, spiacevole situazione. Tuttavia ci appiccicammo al campanello riuscendo, dopo alcuni minuti di limbo, ad attirare l’attenzione della proprietaria del locale. La signora ci aprì con gentilezza e, nel sentire la nostra storia, si rivelò subito ben disposta ad aiutarci. Fece alcune telefonate e, mentre ci serviva la cena, riuscì ad arrangiarci un letto per la notte e un passaggio in auto e un aiuto per recuperare la nostra automobile il giorno successivo. Allo stato delle cose sembrava che la posizione non fosse poi così orribile, e che il ghiaccio fosse più compatto di quanto immaginassimo. Semplicemente (?) il buio e le crisi isteriche e di rabbia ci avevano fatto vedere le cose con più ansia del necessario. La situazione era risolvibile, volendo, anche nell’immediato. Fu una viticoltrice che scorrazzava per il Collio con una Panda rossa dalle ruote talmente lise da non sembrare essere state cambiate nel corso degli ultimi due decenni, a spiegarci che eravamo due fifoni, e che, in sostanza, ci eravamo preoccupati molto per nulla. L’indomani, sotto la luce del mattino inoltrato, le cose si palesarono come facilmente risolvibili, quindi sganciammo il freno a mano, innestammo la prima e, lentamente e con molta attenzione, ci dirigemmo alla nostra quotidianità. Consapevoli, se ancora ve ne fosse bisogno, di due diverse consapevolezze.
Che storiella del cazzo, Andrej! Direte voi. Che vuoi che ce ne freghi delle tue ex, delle crisi di rabbia o delle cinghie di distribuzione andate. Che vuoi che ce ne importi delle tue disavventure sentimentali o automobilistiche! Quel che conta sono le Birre Ignoranti e, come al solito, non ne hai ancora fatto menzione! Stai invecchiando, Andrej! Invecchi e perdi colpi come una vecchia Panda rossa che scorrazza per il Collio friulano! No, amici cari, perché le Birre Ignoranti c’entrano, e non poco. Perché in quella sera, con un gelo maledetto nel cuore e negli arti, io entrai in quel piccolo agriturismo e chiesi soltanto una birra. Una maledettissima birra. Perché non sarei riuscito a bere altro se non una birra gelata che mi ricordasse il freddo tutt’attorno. Che mi desse indietro i liquidi versati tra gli eroici furori di una salita a seconda marcia innestata per sfuggire a un lastrone di ghiaccio che, visto con la luce del mattino, appariva più simile ad una barzelletta che a un inghippo. E allora chiesi una birra, e mi fu portata un Schwerter Bräu, una Birra Ignorante che si trova nella maggior parte dei negozi della GDO, alla modica cifra di 74 centesimi di euro per mezzo litro di birra. Una helles austriaca, una birra dissetante e saporita che scolai con tutta la gioia della consapevolezza. La consapevolezza della fine. E mi gustati con serena liberazione i suoi 5,1 gradi etilici. La sua fresca chiarezza che, nel primo giorno dell’anno, mi spiegava che anche dopo un Capodanno di merda, dopo una giornata di merda, dopo aver inghiottito silenziosamente insulti e recriminazioni e deliri più o meno immeritati, c’è sempre una Birra Ignorante pronta ad aspettarti. E lei, semplicemente, non ti dirà nulla, non ti chiederà nulla. Soltanto, ti darà ciò di cui sei alla ricerca. E, badate bene, non si tratta di alcol o solitudine o chissà cos’altro. Si tratta di silenzio e accettazione. Di empatia, nella freddezza o nel calore, nei confronti di chi la andrà a consumare. Senza troppe domande. Senza troppe pretese. Senza grandi aspettative o massimi sistemi o scleri irrazionali o derive post-adolescenziali.
Perché io, in quella prima giornata dell’anno di svariati anni fa, ho capito quel che ancora oggi mi sembra tanto palese da apparire criptico come un mistero eleusino: ovvero che non ti salveranno i denari o le istituzioni o i rapporti logorati o le amicizie interessate. A salvarti saranno gli sconosciuti, quelli cui dare fiducia come in una pièce di Tennessee Williams. Quelli che, in una sera di inverno, senza chiederti nulla ti offriranno una Birra Ignorante, un posto dove dormire, del cibo con cui rifocillarti e un sorriso rassicurante e dolce. Quelli che, con la loro semplicità da 74 centesimi al mezzolitro, con la loro piacevolezza chiara e frizzante, con la loro onestà da 5,1 gradi etilici, ti metteranno di fronte all’evidenza che, quando accetti ogni cosa senza ribattere è perché, oramai, non hai più nulla da accettare. Perché hai accettato fin troppo, ed ora si tratta soltanto di levare l’ancora. Di ritirare gli ormeggi e, aspettando le prime luci del mattino, sentire che anche il primo giorno dell’anno, nel suo disgelo, può odorare di primavera.
Ecco, allora, che i balli in gruppo hanno un senso.
Che il mandarsi vicendevolmente a fare in culo ha un senso.
Che le periferie del Nord Est industriale hanno un senso. E con loro, le loro ignobili pareti in vetro-cemento.
Ecco, quindi, che anche i freni a mano tirati in salita nel bel mezzo di un lastrone di ghiaccio hanno un maledettissimo senso. E sono un’immagine talmente profonda da essere profetica.
Profetica come una birra gelata bevuta il primo giorno dell’anno. In un luogo imprecisato. Accanto a sconosciuti che, con il loro calore, ti fanno sentire come avresti dovuto sentirti lungo tutto il corso degli ultimi mesi. Niente di più. Niente di meno.
Non si tratta di hybris o kleos o chissà quale altro delirio da Odissea in salsa friulana, innaffiata di Schwerter Bräu. Si tratta di realtà. Di contatto con il mondo sensibile.
Si tratta di immagini. Immagini che, assieme ai gesti, spiegano infinitamente di più di quanto spieghino le parole.
O i deliri.
O le crisi mistiche.
O gli attacchi di rabbia.
O il Bikram Yoga.
O i libri di Jodorowsky o chi per lui.
Soprattutto, i libri di Jodorowski.
Buon nuovo anno a tutti voi. Se è possibile, non tirate freni a mano durante le salite della vita. Potreste arenarvi, senza saperlo, su una lastra di ghiaccio.
La supererete, questo è certo, ma non avrete mai idea della rottura di scatole.
E dell’odore della plastica bruciata…