…ma poi l’ho trovata in offerta al Penny Market.
Nome: Eichbaum
Gradazione: 5,5°
Dove: Penny Market
Costo: 1.44 euro per una lattina da un litro – in offerta.
«Ho amato una donna, ma lei mi ha lasciato». Se dovessi votare il romanzo più breve della storia della letteratura, voterei certamente questo. Al suo interno c’è tutto: la fattualità dell’evento, il sentimento che lo anima e descrive, la risoluzione del rapporto, il mistero sulle cause dell’abbandono. E poi la lunga, strascicata, coda degli sviluppi successivi. Sviluppi che non vengono descritti. Sviluppi che non devono essere descritti. Sviluppi che vengono lasciati in sottofondo. Non tanto come puntini di sospensione in un romanzo di Celine, quanto più come “due punti” posizionati in conclusione di una frase già terminata. Qualcosa si aprirà. Qualcosa si deve aprire. Per il momento, però, il romanzo finisce qui. Questo è quanto. Due punti.
Ho sempre avuto la tendenza a innamorarmi di persone che, da esterno, avrei potuto definire come mie potenziali “nemesi”. Ragazze decisamente lontane da quelli che ho sempre creduto essere i miei canoni. Canoni non tanto estetici, quanto più umani e caratteriali. Persone importanti e piene di pregi, sia chiaro. Persone in compagnia delle quali, però, (se non ne fossi stato innamorato) difficilmente avrei resistito da solo in una stanza con una cassa di Finkbräu a temperatura ambiente. Che banalità ci stai raccontando, Andreij! direte voi. La solita storia vecchia come la notte dei tempi dell’uomo che si innamora della donna sbagliata? Lo sdolcinato romanticismo da quattro soldi dell’amore che riesce a superare anche gli ostacoli della “razionalità” e dell’intelletto? La fregnaccia sull’uomo che, di fronte alle frecce di Cupido, va incontro alla sua nemesi come se fosse una vittima sacrificale? No, niente di tutto questo, amici cari. Voglio raccontarvi la storia di una vecchia fotografia. Una fotografia che non vedo da almeno un paio d’anni, ma che porto ben impressa nella memoria. La fotografia ritrae una ragazza durante una festa estiva. In mano una lattina di birra. Sopra di lei il solleone. Un sorriso divertito, gli occhi a fissare la macchina fotografica digitale. Gli smartphone non erano ancora arrivati e la moda dei selfie era lontana tanto quanto il 2046. Non so chi avesse scattato quella foto. Foto che era apparsa sulla mia bacheca social quasi casualmente. Conoscevo di vista la persona in questione. Negli anni passati c’eravamo scambiati poche parole, alcune battute abbozzate, un paio di sorrisi dettati da qualche Campari in più. Quella foto, però, mi colpì particolarmente. La minuta ragazza in questione teneva in mano una lattina da un litro di Faxe e, dopo la sproporzione tra il suo piccolo viso e l’enorme lattina, il primo pensiero che mi colpì fu su come diavolo avesse potuto bere un beverone del genere. Beverone che, dato il solleone, di certo le si sarebbe riscaldato tra le mani in poche decine di minuti. Di riflessione in riflessione studiai con attenzione quella foto e, credo, finii anche con il commentarla. Sottoponendo così alla ragazza in quesitone l’evidenza di quel formato per niente estivo, e la banale constatazione che la Faxe (apriti cielo!) a mio avviso non era affatto una buona birra. Quanto meno per il costo. Non ricordo come le cose presero la piega che presero successivamente. Ovvero come passammo (io, bevitore di Birre Ignoranti in bottiglia di vetro, e lei, minuta adoratrice della Faxe) dal conoscerci al frequentarci. E poi all’intraprendere una relazione. O meglio, credo non interessi a nessuno, soprattutto perché ha ben poco a che fare con la Birra Ignorante di cui vi voglio parlare. E se scatta il flusso di coscienza-Bakunin, amici cari, be’, mi sa che le cose si metterebbero davvero male.
Così iniziò un romanzo un po’ più lungo di quello citato in precedenza. Un romanzo nato da un’antitesi ma, allo stesso tempo, consacrato alla stessa. Come in ogni relazione accaddero molte cose belle, e molte altre cose brutte non furono evitate. Ci furono pianti, risate, urla, incomprensioni, perdoni e riappacificazioni. Ci furono distanze, ci furono contiguità. Ci furono abbracci e graffi e baci e saliva e dio solo sa quali altre cose umide e appiccicose che sanciscono l’intimità che può intercorrere tra due persone che decidono di passare una parte della loro vita assieme. Poi, imprevedibile come ciò che si è sempre saputo ma a cui non si ha mai voluto credere, arrivò l’addio. E il romanzo si fece breve breve. Breve come il romanzo più breve della storia della letteratura. «Ho amato una donna, ma lei mi ha lasciato». I “due punti”, semplicemente, presero il sopravvento. Quella storia iniziata con una lattina di Faxe da un litro finì nel calderone delle storie infrante. In contemporanea col Natale. Freddo dentro. Freddo fuori. Gelo che sedimenta quando si vorrebbe soltanto motilità. Forse è proprio da quell’istante che iniziai a odiare il Natale. Scrissi anche un racconto su quella vicenda. Parlava di un ragazzo che, trovatosi in contemporanea single e febbricitante, passava le festività natalizie sul divano. Intabarrato tra le coperte a bere Perlenbacher e trangugiare aspirine. Collezionando, poi, le bottiglie vuote al solo scopo di creare un albero di Natale composto dalle stesse. Il racconto era (ed è) ben più lungo del più breve romanzo del mondo. E, per alcuni mesi, accarezzai anche l’idea di farci un cortometraggio pur non avendo alcuna nozione di tecnica registica (né, tanto meno, una videocamera). L’immagine del ragazzo che decide di bruciare il divano su cui aveva spurgato tutto il sudore alcolico e febbricitante l’ho sempre trovata particolarmente azzeccata. Tuttavia non ne feci nulla. «Ho amato un cortometraggio, ma lui mi ha lasciato».
La parte più “autobiografica” del racconto, però, era quella in cui il ragazzo diceva di passare il Natale a vedere vecchi film di Antonioni e di Wong Kar Wai. Drogandosi, quasi, di quelle storie pregne di “incomunicabilità” capaci di delineare l’assurdità degli addii sentimentali con dei tratti tanto algidi quanto terribili. Le pennellate di Antonioni e Wong Kar Wai sull’impossibilità di comunicare le radici della fine di un amore (aspetto che fa il paio con la semplicità o, spesso, l’assenza di motivazioni con cui ne veniva tratteggiato l’inizio) spingevano il protagonista a vedere se stesso riflesso sullo schermo. Come se quei due registi così lontani e diversi tra loro riuscissero concretamente a leggergli dentro e a riproiettare le sue sensazioni. Allora le bottiglie vuote di Perlenbacher impilate a mo’ di albero di Natale erano semplicemente degli eventi accidentali, così come lo erano le aspirine o la coperta tirata su fino alla gola. O il sudore che inzuppava il divano. O l’assurdo delirio dato dalla confusione di immagini, parole, autobiografismo e autodafé. Atto di fede, appunto. Come l’amore stesso. Come la nascita di un romanzo o di un racconto. «Ho amato la mia nemesi, ma lei mi ha lasciato».
Credo di aver introiettato tutto questo nella lattina tozza e assurdamente fuori misura della birra Faxe. Una dimensione priva di utilità, la quale era capace di comunicare l’assurdità dei paradossi che dominano tanto le relazioni sentimentali quanto le Birre Ignoranti. Credevo che l’apice potesse essere toccato dai boccioni di plastica, prigioni di polietilene tereftalato in cui una Birra Ignorante decideva di abbandonarsi alla mercé del primo temerario pronto ad affrontarla. In realtà la plastica è ben più sincera rispetto a un’ingombrante lattina da un litro. La plastica ti confida candidamente di essere la materia meno adatta a contenere una qualsiasi Birra Ignorante. La scelta di abbandonarsi a una bugia così clamorosa può essere dettata soltanto dalla volontà di autoinfliggersi una punizione. Oppure da cause di forza maggiore che costringono a ripiegare drammaticamente su un contenitore così innaturale. La lattina no. La lattina si presenta come un degno (?) competitor del vetro. La lattina tende a mantenere la temperatura desiderata quasi quanto il vetro e, nell’atto di essere compressa e gettata, occupa meno spazio. Provate voi, come il protagonista del mio racconto, a smaltire un albero di Natale di bottiglie vuote di Perlenbacher piuttosto che un monolite di bottiglie di Finkbräu. La lattina è comoda. La lattina è leggera. La lattina è la nemesi del vetro. Già, ma la lattina da un litro? La sua dimensione così dispersiva non rende tutti i supposti pregi assolutamente fuori portata? Non ne annulla immediatamente i vantaggi a discapito di tutte quelle negatività (dispersione termica, perdita di anidride carbonica, scomodità) di cui sopra? Se il romanzo più breve della storia della letteratura ha nella sua stessa brevità la natura della sua bellezza, perché allungarlo? Perché descrivere ciò che potrebbe essere avvenuto successivamente, dando continuazione allo spazio vuoto posto dopo i suoi ipotetici “due punti”? Davvero sapere come si sarebbe conclusa la storia aggiungerebbe valore alla stessa? Perché allungare ciò che non necessita di essere allungato? Perché, soprattutto, ricascarci? Perché aggiungere nemesi su nemesi? «Ho odiato una Birra Ignorante, ma poi l’ho trovata in offerta».
La Eichbaum è una Birra Ignorante tedesca prodotta nell’allegra cittadina di Mannheim dall’omonimo birrificio. Il suo grado alcolico è di 5.5°, e si trova (in promozione) tra gli scaffali del Penny Market all’irrisoria cifra di 1.44 euro per una lattina da un litro. Il simbolo della birra Eichbaum è una quercia stilizzata disegnata con una vecchia versione di Paint per DOS. Con i pixel talmente sgranati da far sembrare, ai meno avvezzi alle tecnologie antidiluviane, la quercia una strana specie di architettura moderna fatta di mattoni e linee concave tirate alla meno peggio. In ogni caso, la parte del packaging è il punto di forza della Eichbaum, Birra Ignorante dal grado superiore alla media delle sue competitor. Quel color rosso magenta unito all’oro della parte superiore della lattina, infatti, rimanda a uno stile nell’ideazione degli abbinamenti cromatici, capace di far impallidire il verde oliva unito al cavaliere nero della Finkbräu (tuttora, quanto meno nella sua versione old-school, una delle mie Birre Ignoranti preferite per quanto concerne il packaging). Leggenda vuole che nel 1679 il Consigliere di Mannheim Jean du Chêne, resosi conto dell’alcolismo dilagante nella sua città e dell’uscita continua di denaro dai forzieri degli abitanti di Mannheim in favore di quelli delle città limitrofe, sancì che la città avrebbe dovuto avere a sua volta un proprio birrificio. Al grido di “gli alcolizzati sono miei e me li ciuccio io!”, il du Chêne pose la prima pietra per il futuro birrificio di Mannheim e, dato che l’umiltà era uno dei pregi che meglio lo contraddistingueva, decise di chiamarlo con il nome della sua casata. Du Chêne, in francese, significa infatti quercia e il caro vecchio Jean, ideatore di un così inattaccabile progetto, impose il suo nome alla fabbrica di birra di Mannheim. Qualche germanofono non troppo lieto di quella pronuncia così dolce e soave, però, cercò di far capire al du Chêne che, anche alla luce dello strapotere francese nel continente e alle mazzate prese nella Guerra d’Olanda, rinunciare al nome francese a favore di quello tedesco non sarebbe stata una brutta idea. Il du Chêne, tuttavia, era irremovibile. Francese era la sua nazionalità, francese sarebbe stata la sua birra e francese il nome della sua fabbrica. Quercia avrebbe dovuto essere, quercia sarebbe stata.
Una notte in cui il du Chêne dormiva sonni tranquilli, però, una giovane e affascinante fanciulla bussò al portone della villa in cui era solito riposarsi. La fanciulla si dichiarò una povera orfanella, e chiese ospitalità al politico. Il du Chêne non riusciva a credere ai suoi occhi: una così affascinante orfanella bussava alla sua porta nel cuore della notte in cerca d’aiuto? Gli si fosse prospettato sotto gli occhi il delitto perfetto, il du Chêne non sarebbe stato altrettanto felice. Aprì quindi lieto all’orfanella, che fece accomodare nelle sue stanze e alla quale fece bere diversi boccali della birra che faceva produrre nella “sua” fabbrica. L’orfanella gradì, e il du Chêne iniziò a puntare sulla tattica più vecchia del mondo per giacere con una fanciulla: farla bere fino allo stordimento. La minuta orfanella, però, ingollava boccali su boccali senza scomporsi, cosa che per un po’ lasciò interdetto il du Chêne, salvo poi passare assolutamente in secondo piano quando il consigliere iniziò a perdere possesso della facoltà di intendere e di volere, sprofondando in una sbronza ignorante degna dei peggiori b-movie di college americani. Stordito il du Chêne, la fanciulla aprì la porta a un paio di suoi sodali, i quali raccolsero il consigliere, lo imbavagliarono e lo trascinarono nel cuore della notte verso la piazza di Mannheim. Nel buio della notte teutonica, i sodali della fanciulla portarono a compimento il loro piano, che il du Chêne ebbe la sventura di conoscere soltanto al suo risveglio, quando i fumi dell’alcol lo abbandonarono. Lasciando, però, spazio alla vergogna più totale.
Lo sventurato si accorse, infatti, di essere stato legato con delle grosse corde alla fontana della piazza di Mannheim e ivi esposto al pubblico ludibrio, nudo come la nobile madre lo aveva fatto. All’altezza del ventre una scritta in francese, la quale faceva notare che le dimensioni virili del du Chêne non erano affatto simili a quelle di una quercia, piuttosto a quelle di un alberello rinsecchito. Il du Chêne diventò dello stesso colore della lattina di Eichbaum, diluendo le guance rubizze del post sbronza con il rosso dell’imbarazzo per la figuraccia subita. Slegato da qualche beone sghignazzante, il du Chêne corse subito a casa, dove vergò ufficialmente che il nome del birrificio sarebbe rimasto sì “quercia”, ma declinato in tedesco. Nacque, così, la birra Eichbaum. Dell’orfanella e dei suoi sodali che avevano organizzato il “ratto” non si seppe più nulla. Del du Chêne, invece, ci resta soltanto un distico in francese il cui contenuto suona pressappoco così: «ho amato una donna, ma lei mi ha lasciato nudo in piazza». Caro, vecchio, du Chêne: sapessi a quanti di noi è successa la medesima vicenda! Solo che la nostra era la metaforica piazza dell’amore, dove siamo rimasti soli, nudi e (spesso) sbeffeggiati.
In ogni caso la Eichbaum è una discreta Premium Ignorante, dal colore giallo paglierino e dalla schiuma fresca e abbondante. Al solito la dimensione non gioca a suo favore, né quel grado in più che, a mio avviso, la rende un po’ troppo corposo rispetto alla consueta beverinità delle premium tedesche. Il suo punto di forza è la frizzantezza che, a discapito della grandezza, si conserva nel tempo e che la rende piacevole anche “alla distanza”. Ne sconsiglio l’utilizzo estivo, a meno che non si punti a condividerla in compagnia, sperando di essere più fortunati del protagonista del mio racconto o del du Chêne. La Eichbaum dà il meglio di sé nelle giornate fresche, quando la pioggia deterge il paesaggio e il vento entra frizzante da una finestra lasciata inavvertitamente aperta. Come il ricordo, appunto. Come il sapore dell’incomunicabilità o delle descrizioni che proprio non vogliono saperne di aprirsi dopo le forche caudine dei “due punti”.
Come quella poesia di Simone Cattaneo, poeta che decise di volare senza ali e senza paracadute.
«Più o meno la sua vita era andata così – I had a woman,
she left me -.
Nulla più di questo.»
Vendesi ricordi. Alla modica cifra di 1.44 euro.
Approfittatene.