Perlenbacher: delle abitudini agostane e dei lutti.
Nome: Perlenbacher
Costo: circa 3.30 euro (bottiglia di vetro da 50 cl)
Tasso alcolico: 4.9 gradi etilici
Dove: Lidl
Premessa:
Sulla seggiola che tengo in bagno (e dove appoggio libri, fumetti e riviste varie) campeggia da un mesetto un albo di Andrea Pazienza. Si tratta di Pompeo, uno dei miei personaggi preferiti del Paz. Ultimamente, quando mi sveglio nel cuore della notte per svuotarmi delle svariate Birre Ignoranti ingurgitate nel corso della serata, finisco con il sedermi sulla tazza del water e prendere in mano sempre la stessa tavola di Pompeo. È diventato una specie di rito sciamanico. Un mantra visivo e silenzioso che ripeto mentalmente quasi ogni notte, abbandonandomi alla forza delle immagini del Paz, alla sua calligrafia da “bambino” e alla scelta esatta e dolorosa delle citazioni. La tavola in questione è la tavola iniziale, ovvero quella in cui Pompeo, sigaretta in bocca, legge un commento alla Terra desolata del poeta americano T. S. Eliot. Il passaggio in questione parla del “metodo mitico” e descrive la visione di Eliot come:
«una visione paradigmatica più che sintagmatica, assolutamente non teleologica, votata ad una paralisi semantica che può essere esorcizzata solo dall’uso sincronico di modelli culturali e di schemi mitici, di un linguaggio ad un tempo unico e multiplo, attuale e storico – dunque essenzialmente metalinguistico – tramite cui il moderno artista mitopoietico celebra senza alcuna illusione finalistica, l’infinità dell’uomo in quanto infinita possibilità di nominazione del mondo.»
Il commento laconico di Pompeo (cui mi associo) è ben più sintetico:
«…bastardo…»
Con questa tavola hanno inizio Gli ultimi giorni di Pompeo.
Con questa tavola ha inizio la sua caduta.
Svolgimento:
Le abitudini agostane sono tra le più strane e imprevedibili. C’è chi ama friggersi sotto un sole cocente per decine d’ore, sopportando il torneo di bocce e le terrine di pasta al forno dell’ombrellone a fianco. C’è chi ama andare in montagna alla ricerca di un po’ d’aria buona, salvo poi scoprirsi circondato da SUV di ogni forma e dimensione, capaci di dispensare degli ottimi PM10 a costo zero. C’è poi chi ama andare al lago a contare i tampax galleggianti (da pescare col retino, a mo’ di gamberi di fiume), chi nelle città d’arte a mangiare menu turistici strictly from the freezer (-Mi scusi, il budino è fatto in casa?-, -Il budino non so, ma di certo la busta che lo conteneva sembrava molto casalinga!-) a prezzi esorbitanti. Insomma, ad agosto ognuno si diverte un po’ come più gli aggrada. Cercando di sopravvivere all’afa estiva con pesanti dosi di noia, smog, Birkenstock sudate e chi più ne ha più ne metta. Dal mio canto, ad agosto, amo prendere la Vespa e andare a passare qualche ora sulla tomba di Pier Paolo Pasolini. E lì, immerso nella solitudine del “cimitero a rotazione” di Casarsa della Delizia, bermi una Birra Ignorante in santa (requiescant in) pace, cercando di farmi passare la sbronza molesta del giorno precedente.
Lo so, messa così fa un sacco snob. E anche un po’ Nanni Moretti in Caro Diario (anche se la sua Vespa è una GTR 125 del ‘75, mentre la mia un PX 125 dell’83, ma queste sono cose noiosissime per noiosissimi vespisti…). Resta, però, che già da alcuni anni il pellegrinaggio etilico agostano alla tomba di Pasolini è una “tradizione” che non riesco a soffocare. E, senza nemmeno programmarlo, finisce che apro il frigo, prendo la prima Birra Ignorante che trovo (vi posso assicurare che è una pesca affatto miracolosa, dato che la possibilità che il mio frigo sia privo di Birre Ignoranti è pari a quella che l’assassino di Pasolini sia stato Pino Pelosi: ovvero nulla), salgo sulla Vespa e mi dirigo al cimitero di Casarsa sotto un maledetto e afosissimo solleone agostano. Con i capelli che luccicano di sudore sotto il casco manco fossero gelide bottiglie di Birre Ignoranti lasciate incustodite all’arsura estiva (che poi, mai che qualcuno lasci incustodite delle Birre Ignoranti gelide sotto il sole! Altro che le crostate di Nonna Papera lasciate a raffreddare sul balcone o i gerani da quattro lire di mia madre, voglio balconate fiorite di Birre Ignoranti gelide lasciate alla pubblica mercè, poche storie!). Devo dire che il tragitto, più che noioso, è desolante. Una strada statale di un asfalto grigio e appiccicoso. Camion e auto che si azzuffano, nemmeno troppo virtualmente, per un sorpasso. Scheletri di aziende abbandonate tutt’attorno (ah, il mitico Nordest produttivo!), tra cui svettano anche alcuni discount (su tutti un glorioso Prix Quality, precursore, grazie alla Birra Viktor, delle Birre Ignoranti in bottiglia di plastica che una decina d’anni fa erano degli artefatti mitologici tipo le matrioske con le facce degli ex-presidenti sovietici). Insomma, una cementificazione forzata che, unita allo smog, all’afa e al post sbronza canonico, ha sempre reso il viaggio alla tomba di Pasolini una sorta di odissea personale. Con i bar da camionisti che costellano la statale a fare da sirene (quasi lo sento il loro dolce canto: -Fermati, Andreij, fatti un birrino qui da noi!-), io a fare da Ulisse (la barba e i capelli ci sono), e la mia Vespa PX 125 dell’83 a fare da “nave di Ulisse” (ebbene sì, dura a credersi ma la nave di Ulisse non aveva un suo nome proprio!). Tuttavia, fedele alla linea a al poema omerico, non ho mai ceduto alle numerose tentazioni birresche. Interessato a portare a termine il mio tragitto prima che la Birra Ignorante all’interno del bauletto della Vespa raggiungesse il punto di ebollizione e, piuttosto che essere bevuta, venisse utilizzata da qualche chef estremista per fare gli arcinoti “spaghetti alla birra ignorante in olio miscela al 2%” (la ricetta nel prossimo post). Così finivo con l’attraversare il centro di Casarsa della Delizia sgasando come un ossesso davanti al bar del paese, che col piffero mi avrebbero fregato le ultime tentazioni, tirando poi dritto verso il cimitero. Così da parcheggiare (sano, salvo e immacolato) la Vespa nel parcheggio antistante. Parcheggio che, come ogni parcheggio di cimitero che si rispetti, è tutto decorato da cemento d’antan e alberi di cipresso.
La tomba di Pier Paolo Pasolini si trova alla sinistra dell’ingresso del cimitero. Si tratta di due lastroni quadrati di marmo bianco, perché PPP riposa assieme alla madre e con lei divide quest’ultimo spazio terreno. I due lastroni sono circondati da un muricciolo basso, decorato con fiori e sormontato da una specie di pianta sempreverde. La tomba è semplice e discreta e, grazie al muro di cinta del cimitero, vi è anche la possibilità di una buona dose d’ombra. Che non guasta mai se si viene da un viaggio di una mezzora buona in Vespa sotto un sole vampiresco, i gas di scarico di automobilisti infuriati, il sudore acre causato dal rum della sera precedente e tutte le varie ed eventuali del caso. Insomma, la posizione è perfetta per farsi una Birra Ignorante in santa (ed eterna) pace. Contando poi sul fatto che, essendo la tomba un po’ discosta dal solito tragitto cimiteriale (ebbene sì, esiste anche una periferia dei cimiteri; voi non ci crederete, ma chiedetelo bene alle vecchine del vostro paese, che su tale lungimiranza hanno fatto un punto d’onore), non si corre il rischio di venire additati come degli alcolizzati da quattro soldi che finiscono a bere anche nei cimiteri. Che ben dovrebbero ringraziarmi, invece, le prefiche in questione! Che a star così sull’attenti finisco anche con il vegliare sui loro fiori appestanti. Che se una volta dai cimiteri si rubava il rame, ora sono ben più gettonati i gigli e i crisantemi, dato che di rame ce n’è pochino, mentre i fiori, si sa, hanno sempre bypassato di gran lunga le opere di bene. Di solito, quindi, mi piazzo ai piedi della tomba di PPP e mi apro una Birra Ignorante fredda (?), coprendo (un po’ come si faceva all’università) il suono del tappo che salta con un finto attacco di tosse canina. Che mai si è visto un attacco di tosse canina agostano, ma questo poco importa. Porto così la Birra Ignorante alla bocca e ci do un sorso, certo che il buon Pier Paolo non si curerebbe troppo di questa mia carenza di bon ton o di serietà. Perché «la serietà è la qualità di coloro che non ne hanno altre: è uno dei canoni di condotta, anzi, il primo canone della piccola borghesia! Come ci si può vantare della propria serietà? Seri bisogna esserlo, non dirlo, e magari neanche sembrarlo! Seri si è o non si è: quando la serietà viene enunciata diventa ricatto e terrorismo!». E mica voglio ricattare o terrorizzare qualcuno imponendo la mia mancanza di serietà o viceversa! Mica voglio arrendermi al becero proliferare dell’elite borghese e radical chic imperante! Nossignori, perché ciò che voglio fare è bere una Birra Ignorante sulla tomba di Pasolini, e sentire per un attimo il soffio del vento d’agosto che mi scompiglia i capelli come una carezza. Come un assolo di tromba di un Chet Baker sul viale del tramonto, con l’aria che spruzza fuori dallo strumento assieme alla saliva e al sangue delle sue gengive martoriate di eroinomane. Oppure come l’ebrezza della volata finale all’ippodromo, dove il vecchio Hank Bukowski voleva farsi seppellire. Che tutto ciò che è brezza è movimento romantico e doloroso. Accettazione di un presente che ti sfiora soltanto. Privazione di un continuare che incede in tua assenza. Calore che resta sul viso. Ricordo che abbaglia la mente per un solo istante. Contatto e distacco simultanei. Distonia da pochi spiccioli, insomma. Silenzio, più che sogno, di una cosa.
Va detto che una delle cose che ha sempre caratterizzato i miei pellegrinaggi agostani sulla tomba di Pasolini è la ricerca dei feticci. Sì, perché sulla tomba di PPP c’è sempre qualcosa che vale la pena di essere sbirciato. Qualcosa che si trova lì per questo preciso scopo. Ovvero perché il poeta la guardi non solo con gli occhi di chi l’ha portata, bensì riesca a guardarla anche con gli occhi degli sconosciuti che visitano la sua tomba. In una sorta di riproposizione metafisica della teoria dei cristalli di tempo di Gilles Deleuze (cazzo, ce l’ho ancora in testa quell’esame di “teoria della letteratura”! Con me e Patrick a guardare Vertigo di Hitchcock alle sei del mattino in un clamoroso post sbronza viagiorgionesco). Così finisco per cimentarmi in una specie di caccia al tesoro; dato che, spesso, il vento smuove biglietti, manufatti e foto varie dalla tomba al perimetro circostante. E osservo attentamente ciò che i visitatori della tomba di Pasolini decidono di lasciare a memoria del loro passaggio. Delle loro sensazioni. Dei loro sentimenti. Di solito si tratta di biglietti contenenti citazioni di poesie o film di Pasolini (la più bella resta il «tutto è buono quando è eccessivo» tratta dalle 120 giornate di Sodoma, scoperta casualmente un paio di anni fa), di sassolini dalle forme più inusuali, oppure di vere e proprie lettere di carattere personale, lasciate volutamente aperte affinché (come nei famosi cristalli di tempo) il loro contenuto diventasse il contenuto di chiunque si trovasse a passare per quel luogo. Perché se il contenitore è comune (il luogo del ricordo di un grande intellettuale), anche il contenuto può ben esserlo. Che nella loro turris eburnea ci stavano i cazzoni dell’intellighenzia post-sessantottina, mica i nostri simili. Ed è un simile che abbiamo perso. Ovvero un uomo che «ha fatto delle cose, si è allineato nella nostra cultura, accanto ai nostri maggiori scrittori, ai nostri maggiori registi. In questo era simile, cioè era un elemento prezioso di qualsiasi società». E mi sembra di vederlo qui in questo istante, hic et nunc, Moravia parlare a braccio. Lui che non l’ha fatto per una vita intera, salvo poi aspettare la morte del vecchio amico Pier Paolo per lasciarsi andare al sentimento più puro e sgocciolante. Questa volta, però, tra i manufatti sulla tomba di Pasolini trovo anche una Polaroid. Vi è ritratta la Torre di Chia in provincia di Viterbo, una delle costruzioni architettoniche preferite da Pasolini, il quale se ne innamorò durante le riprese del Vangelo secondo Matteo. E che acquistò un decennio dopo, finendo poi col passarci gli ultimi anni della sua vita. Quelli dedicati alla scrittura di Petrolio.Quelli dedicati alla scrittura della sua condanna a morte.
La Polaroid è coperta da diversi strati di cellophane. Chi l’ha deposta sulla tomba di Pasolini non voleva si rovinasse, così ha ben pensato di rivestirla con cura e attenzione. Sotto la fotografia vi è scritto soltanto il nome del luogo. Se c’era una data, è stata portata via dalle intemperie. Tuttavia, non mi sembra vi fossero altre tracce grafiche, così che il nome del luogo è la sola descrizione che accompagna la Polaroid. E tant’è. Fisso l’immagine e cerco di capire il legame tra quella Polaroid, Pasolini e la persona che l’ha deposta. Immagino vicende fantastiche. Storie ipotetiche che colleghino tra loro quei cristalli di tempo che mi sono sconosciuti. Butto giù un sorso di Birra Ignorante. È già calda. Mi dico che ci sono storie che non hanno una conclusione, bensì delle mancanze. Misteri che non trovano una soluzione, piuttosto che si alimentano della loro assenza di spiegazione. Quasi fossero delle fiamme perpetue. Dei fuochi fatui azzurrognoli che abbagliano le notti dei cimiteri di campagna. Mi dico che vi è un legame per ogni cosa. Anche per l’assenza di legami. Soprattutto per quella, che là dove i legami non ci sono bisogna crearli, e costruire mondi a prova di cesure e censure. Perché se non ci salverà la bellezza o la libertà, lo farà il contatto con la nostra stessa solitudine. Che è forse l’amore più grande di cui abbiamo bisogno e al quale dobbiamo dedicarci. Un amore grande, misterioso e violento. Come l’immagine di qualche cosa che non ha volto e che ci insegue freddamente. Costringendoci a riparare nella nostra torre personale. Sia essa la Torre di Chia, quella di Vertigo o una qualche turris eburnea del cazzo. Poco importa. Una volta giunti in cima la caduta spetta a tutti. E, come dice il buon vecchio Vince ne L’odio, «l’importante non è la caduta, ma l’atterraggio».
Così Pompeo si buttò come fosse stato, all’improvviso, spintonato.
Recensione:
L’ultima volta che ho visitato la tomba di PPP ho portato con me una Perlenbacher. La Perlenbacher è la Birra Ignorante ufficiale del LIDL, ed è la birra che alimenta le estati di ogni buon bevitore ignorante. Il quale non vede l’ora arrivino le promozioni XXXXL del LIDL per fare incetta di griglie da campo, carne di pessima qualità e, per l’appunto, ettolitri di Perlenbacher. La Perlenbacher è la Birra Ignorante estiva per eccellenza: viene venduta in bottiglie di vetro da 50 cl (ogni buon bevitore sa che, d’estate, le birre da 33 cl finiscono subito, mentre quelle da 66 cl diventano in poco tempo terribilmente simili a brodo Star), in confezioni cartonate in cui se ne possono trovare sei esemplari per un totale di 3 litri di birra a confezione (studi clinici dimostrano che una confezione di Perlenbacher può alimentare il fabbisogno etilico di un Bevitore Ignorante quanto meno per un pomeriggio al parco, la variabile cibo non è stata ancora calcolata). Il costo è di circa 3.30 euro, e la sua precipua specificità è quella di essere leggera (4.9 gradi etilici) e beverina, così da non causare attacchi di nausea nemmeno dopo averne ingurgitato quantitativi estremi al fine di placare la sete causata dall’arsura agostana. Bevuta gelata, la Perlenbacher è risolutiva come manna dal cielo e dona quella sensazione di appagamento dei sensi che deve aver provato Mosè alla vista della Terra Promessa (occhio al post-sbronza sionista, eh, Mosè caro…). È una birra decisamente frizzante, e dal gusto amarognolo che la contraddistingue come birra “da durata”, non da sbronza improvvisa. Ottima se accompagnata da grigliate di ogni genere, con annessa partita di calcio amatoriale etilico, sport praticato dalla maggior parte dei Bevitori Ignoranti i quali, al parco, Perlenbacher in mano, sognano prodezze acrobatiche degne dei gemelli Derrick, salvo poi risolversi a falciare selvaggiamente gambe di poveri malcapitati come il Materazzi di turno. A questo proposito, la Perlenbacher è ottima anche per delimitare le porte del campo di calcetto, con l’unico inconveniente che è sconsigliabile utilizzarne una notevole quantità. Il rischio che il Materazzi di turno fracassi il “Venezia” della situazione contro l’improvvisata montagnetta di Perlenbacher costringendolo a una doccia di vetri e fondi di birra calda è troppo alto per non essere preso in considerazione. Anche se la sbronza tenue ed estiva della Perlenbacher potrebbe addirittura portare a una riappacificazione inaspettata. Il tutto, sotto la luce salvifica del sole d’agosto, della bionda bontà birrignorantesca della Perlenbacher e della brezza calda del ricordo e della caduta. O meglio, del ricordo della caduta. Che ci potranno schiantare a terra all’infinito con tutti i loro borghesissimi e vacui moralismi, ma non riusciranno mai a distruggere la nostra passione di Birre Ignoranti. Non riusciranno mai a distruggere questa nostra dolce, insana, romanticissima tradizione etilica.
Perché, come dice il poeta, «solo nella tradizione è il mio amore».
E per amore, si sa, si perdona ogni cosa.
Soprattutto se è legato a doppia mandata con il sogno.
Na Zdrowie, Pier Paolo…